Tra la cinquina finalista del Premio Leogrande Nicola Lagioia racconta La città dei vivi
Brutalità. Coltelli. Droga. Nessuna ragione apparente. Sangue. Violenza. Messe così, rigorosamente in ordine alfabetico. Ma come quella regola matematica anche qui il risultato non cambierebbe se mescolassimo le parole. Roma. 5 marzo 2016. Manuel Foffo e Marco Prato iniziano a colpire Luca Varani con coltelli e martello fino a renderlo inerme. Si consuma con un cranio in mille pezzi uno dei delitti più efferati, agghiaccianti, brutali che si ricordi. Esattamente 4 anni dopo, nel 2020, da Presidente del Consiglio, Conte avrebbe chiuso in Italia, per la prima volta nella storia, le scuole di ogni ordine e grado. Causa Covid. E questa pandemia rischia di ridimensionarle tutte le violenze brutali, efferate, selvagge, di offuscarle, prendendo la scena. Nicola Lagioia, già vincitore del Premio Strega con La Ferocia nel 2016, su quella vicenda, i riflettori vuole tenerli accesi e lo fa proprio perché una spiegazione plausibile, mediata, razionale, risulta impossibile, perché quella violenza consumata tra ragazzi della borghesia medio-alta è alla portata di tutti. Tre giovani. Devastati e immersi nel male. Manuel Foffo organizza un festino a base di droga e alcool e invita Marco Prato. Bevono cocktail, si drogano, lo fanno per tre giorni consecutivi, senza mangiare né bere. Invitano Luca Varani per realizzare e appagare il desiderio di una violenza sessuale. Ma è la notte del 4 marzo che inizia quella discesa verso le profondità più nascoste del male. Sfasciati da sostanze psicotrope e demoni la perversione si trasforma in vera e propria mattanza. Come i tonni nelle acque siciliane, Varani viene dilaniato da Foffo e Prato (che poi si suiciderà in carcere). Il fatto è questo. Tutt’intorno il nulla. Nessuna motivazione. Nè di tipo economico, passionale, sociale. Niente. Alla fine l’autopsia conterà 107 colpi inferti con due coltelli e un martello.
Roma è quello spazio e quel luogo in cui riesce a germogliare questa violenza. Ed è questo che Lagioia indaga. Quello spazio inteso in maniera larga, lo spazio condiviso, dai tre giovani. Lo spazio di una città decadente in cui si rincorrono prostituzione minorile, droga, corruzione, Roma che era anche la città dei due papi. La città dei vivi, appunto. Roma è la città in cui Lagioia ha vissuto prima di diventare direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino. Quello spazio lo conosce e ne scandaglia gli anfratti psicologici ed emotivi.
Ma perché sia la città dei vivi c’è bisogno per forza che qualcuno muoia. Ed è tutto così violento, torbido e tremendamente vicino, a portata di mano, perché se è vero che noi non vorremmo essere le vittime, potremmo anche essere i carnefici. Roma è il solo spazio in cui possa innescarsi quel continuo confronto tra il mondo dei vivi che chiamano i morti e viceversa. ‘La sposa cadavere’ è un film bellissimo a firma di Tim Burton. In quel film si confrontano due mondi in un dialogo osmotico tra morti e vivi e la terra che sta nel mezzo. ‘La terra di mezzo’. Ma quella è un’altra storia. Sempre a Roma. La città dei vivi.
Sergio Colavita