Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides
Grosse Pointe, Michigan: nel Midwest americano si muovono le vite della famiglia Lisbon, in
un’ambientazione dove il decadimento è implicito ma incombente. Gli olmi dell’area residenziale
sono condannati all’abbattimento perché malati, le crisope infestano l’aria, le stagioni si
susseguono impietosamente e la mediezza è il motore dell’esistenza in questa ambientazione così
familiare. Potrebbe trattarsi di un qualunque spazio urbano del mondo, tuttavia a questa serialità
omologante ci sarà una rottura. Lo straniamento sarà conseguente, derivato dai lutti per suicidio
delle 5 ragazze di casa Lisbon: Cecilia in primis, e poi Lux, Therese, Bonnie e Mary.
La narrazione
Descrivere l’atto estremo con cui si pone fine alla propria vita, scavalcando l’inevitabilità del gesto e determinandone la causa è qualcosa di profondamente complesso, eppure Jeffrey Eugenides, autore del romanzo, compie qualcosa di molto mirato nel suo compito. Egli affida la narrazione della vicenda a un narratore di forma multipla, consistente in un gruppo di adolescenti, tutti di sesso maschile, i quali osservano la vita delle 5 sorelle con attenzione, sfociando perfino nell’ invasivo per ricercarne gli spazi più intimi, ad esempio collezionando gli oggetti appartenuti alle ragazze. La scelta di uno sguardo apparentemente ossessivo, che si rivela invece atmosferico per raccontare gli estremi delle giovani è perfettamente logica: in un gesto sordo come il suicidio, troppo spesso contornato da un susseguirsi e addizionarsi di dinamiche e agenti scatenanti a produrne l’origine, ricorrere a una voce unica, e perciò più diretta e nitida sarebbe stato inefficace, persino violento, tanto scientifico quanto volgare.
Personaggi
La comunità dell’area è scossa dagli episodi, adducendo ai gesti estremi le motivazioni più disparate, tra cui la più lineare sembra essere la severa educazione genitoriale. Le sorelle sono infatti cresciute da una madre fervente cattolica, che impedisce alle figlie il contatto con buona parte dei prodotti della cultura di massa, perché espliciti, fuorvianti e inadatti, oltre a controllare la condotta di ognuna attraverso abiti lunghi e di rigore clericale e controllandone gli spostamenti, concessi esclusivamente per la scuola e la messa domenicale. Accanto a lei compare Ronald, insegnante di matematica, padre passivo, da cui non emerge alcuno spessore, né di contrasto né di sostegno, al giudizio sovrastante di sua moglie.
La signora Lisbon diviene in questo modo produttrice attiva del disagio inascoltato delle sue figlie: educare alla privazione, in assenza di ragionamento e confronto paritario, determina lo sviluppo di un esercizio di potere mascherato come benevolenza.
La famiglia
L’emarginazione delle ragazze è derivata dall’abitare la dimensione senza tempo della propria famiglia, che sottopone a un ascetismo per nulla in linea con lo spirito in formazione, e per questo non esente da crisi, delle adolescenti. Dopo la morte di Cecilia, la prima a suicidarsi fra le ragazze, a queste viene concesso maggiore spazio su consiglio del proprio terapista. Alle 4 sorelle, testimoni del lutto della piccola Cecilia, viene offerto il permesso di partecipare alla festa di inizio anno (Homecoming) del proprio liceo. Tuttavia, quando Lux tornerà a casa al mattino dopo, ignorando il coprifuoco delle 11 imposto da sua madre, le regole si faranno più drastiche, imponendo a ognuna delle figlie di restare eternamente confinate a casa, evitando persino la frequentazione della scuola. Da questo momento in poi Lux adotterà uno stile di vita di contrasto, invitando uomini sconosciuti a fare sesso con lei sul tetto della propria abitazione, oppure fumando di nascosto. In queste azioni di espressione di una sessualità ferina, autentica e lontana dal moralismo borghese, Lux appare secondo uno spirito che potrebbe sembrare primitivo, ma che rivela il tentativo di un riscatto e di un’indipendenza nei confini stretti dell’isolamento.
La solitudine sociale
A questi estremi, sfortunatamente, non esiste un ritorno di coscienza: è la stessa incomunicabilità del suicidio a impedire il confronto con gli adulti, che sono frastornati dalle proprie congetture e da una paura invalidante rispetto al destino dei propri figli. Nonostante ciò, sono in pochi a farsi sfiorare dal retropensiero di ritenersi responsabili dell’accaduto. Non arriva il colpo di scena, non c’è nessun elemento di risoluzione per destinare un briciolo di pace, spiegazione o risoluzione al tessuto infestato di una società cancerosa. O forse l’incomprensione deriva dal fatto che lo status quo, frutto delle generazioni precedenti, e non solo dei propri genitori, sia una cintura troppo stretta per i corpi esili, tuttavia desiderosi di ampie boccate di respiro delle 5 sorelle.
La comunità vuole ricominciare, e dimentica il nero provocato dalle morti di queste vite in fiore.
La vita va avanti nelle arterie cittadine, eppure l’assenza di uno spazio di ascolto dove potersi rifugiare e ricevere protezione è una preoccupazione che non lascia scampo. Ne provoca la morte.
La solitudine sociale ammazza di più che quella effettiva, soprattutto se la comunità di cui si è parte costruisce delle barriere allo sviluppo individuale, impedendone l’autodeterminazione.
a cura di:
Potito Forte (nato a Foggia nel 2001), laureando in Comunicazione della Moda presso l’Accademia di
Costume & Moda di Roma. Aspirante scrittore, nel 2022 ha prodotto una raccolta di racconti per la mostra
collettiva “Pharmakon ep.2” del gruppo curatoriale Gandhara presso il Museo delle Mura in Roma.