Metà anni ’90. Il boss Luigi Ilardo (reggente mafioso della provincia di Caltanissetta) divenne confidente del colonnello Michele Riccio del ROS e gli rivelò che avrebbe incontrato Provenzano in un casolare nei pressi di Mezzojuso; Riccio allertò il colonnello Mario Mori ma non gli furono forniti uomini e mezzi adeguati per intervenire, cosicché non riuscì a localizzare con esattezza il casolare indicato da Ilardo. Successivamente, il 10 maggio 1996, poco dopo aver cominciato la sua collaborazione con la giustizia e poco prima che venisse formalizzata, Ilardo venne ucciso.
“A un passo da Provenzano” De Andrè l’avrebbe definita ‘una storia sbagliata’, come quella che cantava ripercorrendo la figura di un grande intellettuale italiano.
Giampiero Calapà, giornalista de ‘Il fatto quotidiano’ la definisce ‘una storia nascosta’, invece. Nascosta tra le pieghe della memoria di un paese ‘bellissimo e disgraziato’ riprendendo Paolo Borsellino in una delle sue ultime apparizioni pubbliche. A ripercorrerla è Alessandro Scuderi, ispettore della squadra mobile di Catania. Siamo in Sicilia. E questa è una delle poche cose certe di questa storia. Da una parte c’è la Mafia, dall’altra lo Stato. O almeno così dovrebbe essere. In realtà quella mafia non era l’anti-Stato, anzi si era annidata, intorcinata, innestata così bene al suo interno da diventarne parte, al punto che quelli che cercavano di sconfiggerla sono stati annientati, cancellati o messi da parte o ne è stata screditata l’autorevolezza. In quel clima politico e sociale la mafia aveva messo le mani sugli appalti delle Istituzioni e aveva armato i fucili e inondato di sangue le strade, scatenando una guerra di mafia per gestire i flussi di denaro illecito. Un passo. Tanto mancava per arrivare alla cattura di Bernardo Provenzano, u’ binnu, il boss calcolatore. Ma quel passo non è stato fatto per troppo tempo.
E infatti Calapà racconta attraverso la testimonianza dell’Ispettore Scuderi non la cattura di Provenzano, ma la sua mancata cattura. Perché troppe cose non tornano, mai, come certi conti a fine mese. Dalle fughe di notizie, alle lettere del ‘Corvo’ che inquinarono il Palazzo di Giustizia di Palermo e le sue indagini, nel pieno degli anni 80 e 90, artatamente costruite e innescate e che portano quella Sicilia di Falcone e Borsellino, ma anche dei Bontade, Contorno e Santapaola, fino ai giorni nostri nella trattativa Stato-Mafia. Di quanto sia stata manipolabile l’opinione pubblica e la stampa lo dimostra anche l’ordigno dell’Addaura, l’attentato a Falcone, che a un certo punto venne accusato di essersi messo la bomba da solo. Tra depistaggi e occultamenti le indagini di Scuderi vennero insabbiate e il lavoro svolto accantonato senza ragioni reali. Ilardo sarebbe stato il primo a tratteggiare l’identikit di Provenzano quando del capo di Cosa Nostra non c’era neppure una fotografia reale dagli anni Sessanta.
E, mentre sui giornali venivano pubblicati identikit molto lontani dal vero volto di Provenzano, c’era un poliziotto che quel volto lo aveva già ‘visto’ nel 1997, nove anni prima della cattura.
“Per il segno che ci è rimasto
Non ripeterci quanto ti spiace
Non ci chiedere più com’è andata
Tanto lo sai che è una storia sbagliata”
(Una storia sbagliata, Fabrizio De Andrè)
Il saggio è tra i cinque finalisti del premio Presidi del libro “Alessandro Leogrande”.
Sergio Colavita