Che siate malati oppure no, nel corpo o nell’animo, l’ultimo libro di Francesca Mannocchi, Bianco è il colore del danno, Einaudi 2021, vi spingerà a guardare oltre il precipizio.
È l’orlo del baratro che ci riguarda tutti e che tutti dovremmo imparare a riconoscere per sapere davvero chi siamo, nelle trame di quali storie e non detti siamo venuti al mondo e quali sguardi hanno ristretto, deformato, falsificato la nostra biografia.
Giornalista, inviata di guerra, ha scritto reportage da Iraq, Libia, Yemen, Libano, Siria, Tunisia, Egitto, Afghanistan, ha vinto premi giornalistici, ha co-diretto il documentario Isis, Tomorrow, presentato alla 75esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Bella, coltissima, dinamica, a trentasei anni, quando è mamma soltanto da sei mesi, Francesca scopre di essere malata: sclerosi multipla recidivante remittente.
Non è unicamente il racconto della sua battaglia con una malattia cronica autoimmune per la quale non esistono ancora cure risolutive, ma solo terapie contenitive per non far degenerare il processo fino all’invalidità totale.
Questo libro è molto di più, perché con onestà e dolore scrosta poco per volta gli inganni e gli autoinganni su cui le nostre identità si costruiscono, prese al laccio dalle esistenze che ci hanno preceduto.
Siamo tutti immersi in un reticolo trans-generazionale che contribuisce a costruire delle personalità nelle quali un giorno non ci riconosceremo più e ci sentiremo stranieri anche a noi stessi.
Cercarsi può diventare una condanna a vita.
Non è un caso che questo libro abbia un incipit che non ti aspetti leggendo la quarta di copertina: il primo nominato è il nonno materno, non la protagonista, non la sua malattia.
È la conferma che siamo fatti di tutte le vite in anticipo sulla nostra, degli inciampi che le hanno ostacolate, dei racconti che sono stati taciuti, delle attese e delle pretese che nessuno ha mai chiamato per nome, ma che tutti hanno cucito addosso a qualcuno di là da venire.
La scrittura ha l’urgenza del diario intimo, che rispetta però il lettore: non è un mémoire e neppure un’autoconfessione. È piuttosto il tentativo di parlare a se stessi, liberi dall’autocensura e dalle aspettative delle aspettative. È il tentativo di trovare una cura nelle parole e nel perdono .
Un libro che con profondissimo amore materno sa porre domande messe al bando dalla cultura che nei millenni abbiamo sovrapposto alla natura: “Sarei stata una brava madre? E com’è una brava madre? Lo volevo davvero, davvero io o diventare madre è un desiderio indotto?”.
Ed è un libro sul perdono:
Cosa non hai perdonato, di cosa non ti sei perdonata? […]
Cosa ti hanno fatto, cosa non riesci a perdonare?
Non mi hanno vista.
E tu, cosa ti stai imponendo di non vedere?
I nonni che hanno imposto una vita ai padri, i padri che non hanno saputo guardare i figli fuori dalla lente distorta delle loro aspirazioni deluse e dei loro fallimenti.
Una storia che fa dialogare i vivi e i morti, così come le parti morenti di noi con la voglia che sempre abbiamo di essere felici, di provarci almeno.
Siamo tutti “semprevivi” e “sempremorti”.
Stiamo tutti “benemale”, a volte felici e a volte tristi.
I May, I Might, I Must.
Io posso, io potrei, io devo: è il titolo di una poesia di Marianne Moore, citata in esergo.
Queste parole, che sono una dichiarazione d’intenti, sembrano fare eco a Samuel Beckett: I can’t go on, I’ll go on.
Non posso andare avanti, andrò avanti.
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Bianco è il colore del danno è disponibile in e-book per il prestito digitale. Consulta il catalogo della Biblioteca “la Magna Capitana” di Foggia. Prestissimo disponibile anche in versione cartacea.
Della stessa autrice, disponibile in Biblioteca, anche Io Khaled vendo uomini e sono innocente, la scioccante storia di un trafficante di esseri umani. Sempre in e-book, vi segnaliamo sul catalogo della Biblioteca anche questo altro titolo: Porti ciascuno la sua colpa. Cronache dalle guerre dei nostri tempi.
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